La svalutazione è il rimedio valido e sperimentato per questo tipo di problemi, ma una variazione del 2% non basta, con i salari del manifatturiero cinese che aumentano a un tasso annuo del 10%.
Forse per le autorità cinesi questa svalutazione potrebbe essere solo la prima di una serie di futuri aggiustamenti al ribasso, ma in quel caso starebbero ignorando la prima regola su come gestire i tassi di cambio: se devi intervenire, vai fino in fondo.
La logica che sta dietro quella regola è semplice: se gli investitori stranieri prevedono altri deprezzamenti, se ne andranno dai mercati cinesi per evitare ulteriori perdite. Le fughe di capitali aumenteranno, le condizioni finanziarie subiranno una stretta e saranno gli investimenti a farne le spese. Ed è esattamente quello che sta accadendo in Cina.
Un’unica, grossa svalutazione minimizza il rischio. Infatti, se gli esportatori si aspettano che un miglioramento netto della competitività porti a una migliore performance economica, la valuta recupererà parte del suo valore, i capitali entreranno anziché uscire dal Paese, la spesa aumenterà anziché diminuire, che è precisamente quello di cui la Cina ha bisogno al momento.