Come direbbero gli astronauti della NASA, “Houston, abbiamo un problema”. L’85% delle imprese italiane è a gestione familiare ma solo un terzo ce la fa a sopravvivere con i figli e solo un decimo riesce a passare il testimone ai nipoti. Non solo: mentre quasi un quarto di esse è guidato da Capo-famiglia o fondatori over 70 – in più della metà dei casi, la prima generazione imprenditoriale – solo un’azienda familiare su dieci ha già predisposto un piano di transizione e solo due su dieci stanno pensando di farlo.
A rischio sono la continuità aziendale, la sostenibilità economica e sociale delle comunità e dei territori e, beninteso, l’eredità familiare. Con un effetto domino sia sull’indotto, sia sugli investimenti in quella determinata area o industria. Ma più di un quinto delle aziende lamenta l’assenza di una staffetta generazionale e più di un terzo dichiara che, anche se presenti e interessati, i figli non siano ancora pronti ad assumersi questa responsabilità. Con questi dati provenienti da uno studio Deloitte su 100 imprese familiari italiane, siamo andati a sentire uno dei migliori Studi legali 2021 e 2022 secondo Forbes: quello dell’avvocato Paolo Borrelli.
Gli errori più comuni
Come ci spiega l’avv. Borelli, il primo e più diffuso è la confusione tra appartenenza e competenza. Che porta a inserire nel Consiglio di Amministrazione, ove presente, soltanto i membri della famiglia. Idealmente legati all’azienda ma non anche necessariamente adatti alla migliore governance.
Da qui, la sovrapposizione dei ruoli – già rischiosa di per sé e che porta inoltre a basare le decisioni aziendali non su fattori oggettivi, di mercato e di crescita, bensì su quello che l’avvocato Borelli chiama “il patrimonio emotivo”. Dal quale fanno parte, per esempio, l’identificazione della famiglia nell’azienda, lo status, la continuità dell’eredità o i valori personal-familiari, spesso sostitutivi delle soluzioni finanziarie o imprenditoriali. E che generano una minore “elasticità” di vedute, tali da limitare la creatività, l’autonomia o la vis imprenditoriale dei figli.
Ma l’errore più grande è lo sguardo, rivolto al passato invece che al futuro: il considerare, cioè, la successione come un obbligo derivato da un traumatico evento singolo e non come un processo e un’opportunità. Di formazione, anche affiancando i Senior in carica – e prima dei loro 65 anni -, o con lo stimolo a fare esperienza in realtà aziendali terze o proprie, in modo da sviluppare competenze, visione e approccio.
Come gestire il passaggio
A parte evitare gli errori appena illustrati, si tratta di predisporre per tempo un piano a breve e lungo termine. Che metta l’azienda familiare in condizione di affrontare trend, nuove esigenze (come la transizione energetica, green e digitale) e imprevisti, dagli eventi traumatici ai contenziosi. Per esempio:
- chiarendo i ruoli e assegnandoli in base alle capacità e ai risultati;
- includendo nei CdA anche membri esterni indipendenti, selezionati per le loro comprovate competenze;
- frazionando il patrimonio, come misura di riduzione del rischio, e lasciandone libera una parte per l’eventuale liquidazione di soci non interessati o non “performanti”;
- affidando il processo di transizione a figure professionali esterne e competenti, in grado di acquisire la migliore visione di dettaglio e complessiva.
Soprattutto, instaurando la giusta “dialettica” intergenerazionale. Per lasciare ai propri figli e nipoti un’azienda che possano gestire a modo loro ma sentendo propria. In poche parole, pensando in prospettiva.
Le performance delle grandi imprese familiari
Parliamo di quelle con un fatturato di oltre 20 milioni di euro, che rappresentano il 65% del totale delle imprese italiane. E che – in base all’ultimo Osservatorio AUB, pubblicato a gennaio – tra il 2019 e il primo semestre 2022 hanno registrato:
- un aumento dei ricavi di oltre il 20%, superiore a quello delle imprese non familiari;
- una redditività netta maggiore rispetto all’ultimo anno pre pandemico, con un aumento dell’occupazione del 3,8%;
- una diminuzione del rapporto di indebitamento e PFN/EBITDA, con il miglioramento delle disponibilità liquide rispetto alle passività finanziarie.
Le migliori performance sono state registrate dalle aziende familiari quotate alla Borsa di Milano – con ricavi, reddittività e solidità superiori sia alle omologhe europee, sia alle imprese non familiari italiane. Cosa hanno in comune? I CEO appartenenti alla famiglia al 44%, i familiari nel board al 22%, i consiglieri under 40 al 35% e quelli donna al 33%. Percentuali inferiori a quelle della Francia, cioè al primo mercato per imprese familiari quotate, e che suggerirebbero una maggiore apertura a consiglieri indipendenti, azionisti di minoranza, giovani e donne.
Secondo il Global Family Business Index pubblicato quest’anno a giugno, le 500 maggiori imprese familiari nel mondo avevano raggiunto nel 2022 ricavi per oltre 8 trilioni di dollari – cioè, poco meno della metà del PIL dell’Unione europea. Con un tasso di crescita del 10% mentre quello dell’economia globale si fermava al 6%. Le imprese familiari sono quindi vitali per la creazione di valore economico e culturale: per un Paese come l’Italia, che vede la più alta concentrazione di imprese familiari a livello europeo, un asset strategico. Al quale pensare per tempo.